Napoli. Giustizia, riforma (Draghi) Cartabia: ‘in fumo migliaia di delitti’
Forse a Potenza, a Salerno e negli uffici giudiziari medio-piccoli. A Napoli no. Con le attuali risorse, riuscire a fare un appello a Napoli in due anni è impossibile.
Perché?
Abbiamo 57mila processi pendenti e per farli ci vogliono magistrati e cancellieri. E la nostra pianta organica è completamente inadeguata. A Napoli abbiamo poco più di un dipendente per ogni magistrato, a Campobasso ce ne sono 6 e a Benevento 4.
Il ministro al Corriere annuncia concorsi e assunzioni.
C’è stato da noi un aumento della pianta organica dei magistrati, ma i posti non sono coperti e non sappiamo se gli 11 posti messi a concorso dal Csm per la Corte d’Appello di Napoli lo saranno, perché i colleghi non fanno domanda per venire qua in assenza di incentivi di fronte alla nostra mole enorme di lavoro. L’ultima volta furono messi a concorso dal Csm 8 posti. Ma ne vennero coperti solo 3.
Perché i giudici non vogliono venire a Napoli?
Divida 57mila processi per 15 collegi e si renderà conto di quanti processi deve affrontare ogni singolo magistrato. In una sola delle sei sezioni di Napoli pendono più processi che nell’intera Corte d’Appello di Milano. Dove sono preoccupati di non riuscire a fissare la prima udienza di processi conclusi in primo grado nel 2019. Mentre noi stiamo fissando ancora processi del 2015-16.
Perché questi tempi così lunghi?
La Corte d’Appello di Napoli è diventata un imbuto dove si strozza la produzione di processi e sentenze di uffici di Procure e tribunali che sono stati rafforzati in maniera più adeguata del nostro. È una situazione paradossale: le Procure producono più dei loro tribunali, i 7 tribunali del distretto di Napoli producono di più di quello che la mia Corte d’Appello riesce a smaltire, e a nostra volta emettiamo un numero di sentenze superiore a quello che i cancellieri riescono ad eseguire. E poi c’è la specificità di Napoli che ci si ostina a non vedere e che io ripeto ormai da cinque anni a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario.
Qual è questa specificità?
I processi andrebbero calcolati anche secondo la gravità dei reati e il numero degli imputati e noi a Napoli siamo travolti dai maxi-processi di camorra provenienti direttamente dai riti abbreviati dei Gip, mentre Corti di altre città importanti hanno pochissimi procedimenti di grandi dimensioni. Aggiunga i 200 nostri processi di Corte d’Assise, mentre a Roma e a Milano siamo nell’ordine della cinquantina.
Il risultato?
Ovviamente dobbiamo rallentare tutti gli altri processi con gli imputati a piede libero, compresi quelli per reati di pubblica amministrazione, per dare priorità ai maxi-processi di criminalità organizzata. Altrimenti c’è il rischio che i boss vengano scarcerati per decorrenza dei termini. Ma quello che non è prioritario finisce per non essere fatto mai e quindi nel distretto di Napoli le vittime di truffa o aggressione oppure altri reati comuni hanno una possibilità di ottenere giustizia vicina allo zero. È drammatico dover constatare che si finisce per diffondere un senso di impunità, ma purtroppo è così.
Due tesi a confronto nel processo, accusa e difesa: da una parte gli agenti della polizia penitenziaria che respingono le accuse di violenza, dall’altra parte quattro ex detenuti e la moglie di un quinto che circa sette anni fa denunciarono i presunti pestaggi in carcere. Tra coloro che hanno raccontato le torture di “cella zero” c’è Pietro Ioia, attuale garante dei detenuti di Napoli ed ex detenuto. Nei racconti di chi ha denunciato, “cella zero” è descritta come un luogo di torture, di umiliazioni e violenza.
Oggi, a Poggioreale, quella stanza di punizioni non c’è più, ma nella ricostruzione al vaglio dei giudici che scava nel passato del carcere cittadino “cella zero” sarebbe una stanza spoglia, spesso imbrattata di sangue, al piano terra, non numerata, arredata con un letto ancorato con le viti al pavimento e lenzuola di carta. Lì si finiva rinchiusi per punizione o con un banale pretesto. “Verso le 22 e 30 ero fermo accanto alle sbarre della cella quando un assistente della polizia penitenziaria, addetto alla sorveglianza del piano, si avvicinò a me e in dialetto napoletano disse: “Tu hai detto che voglio fare il guappo”.
Fu il pretesto per condurre il detenuto “in una saletta senza arredi”. “Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi – si legge nel racconto agli atti del processo – e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e a farmi eseguire flessioni sulle gambe”. Diversamente da quanto sta accadendo in questi giorni nell’ambito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le accuse relative ai fatti di “cella zero” non sono sostenute anche da filmati delle telecamere del circuito di videosorveglianza per cui il confronto tra accusa e difesa si fonda principalmente sulle testimonianze.
L’indagine, nata dalla denuncia dell’allora garante regionale dei detenuti Adriana Tocco e del Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei reclusi, fu lunga e complicata, i pm conclusero la fase preliminare chiedendo il rinvio a giudizio per i dodici agenti e l’archiviazione per altri otto.
Cinque gli episodi di presunti pestaggi al cuore delle accuse. Nel processo i capi di imputazione spaziano, a vario titolo, dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute a maltrattamenti. Una violenza con cui si sarebbero regolati i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie, sguardi o parole di troppo. Una violenza che mostra il lato più critico e fallimentare dell’istituzione carcere.
(Fonti: Fatto Quotidiano – Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)