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(Elena Tebano) «Le autorità nazionali non hanno protetto la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, di cui la redazione della sentenza è parte integrante della massima importanza, soprattutto in considerazione del suo carattere pubblico. Tra l’altro, la Corte ritiene che i commenti riguardanti la bisessualità della ricorrente, le relazioni romantiche e le relazioni sessuali occasionali prima degli eventi fossero ingiustificati. Ritiene che il linguaggio e le argomentazioni utilizzate dalla Corte d’Appello di Firenze abbiano trasmesso i pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che rischiano di impedire una protezione efficace dei diritti delle vittime di violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente». La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu) riassume così, sul suo sito, le ragioni che l’hanno portata a condannare l’Italia per come ha condotto il processo, con relativa sentenza, a sette imputati accusati da una ragazza di Scandicci (Firenze) di averla stuprata dopo una serata passata insieme alla Fortezza da Basso, una zona della movida fiorentina, nel 2008.
Per i giudici della Cedu (la massima autorità nel continente sul rispetto dei diritti umani, un organo indipendente dall’Unione europea) il processo italiano invece di tutelare i diritti della ragazza la ha esposta a una nuova forma di violenza – questo significa «vittimizzazione secondaria» – facendo leva su pregiudizi morali inaccettabili sulle sue scelte di vita e violando l’articolo 8 (che tutela il diritto al rispetto della vita privata e dell’integrità personale) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per questo la ragazza dovrà essere risarcita con 12 mila euro.
«Sono soddisfatta che la Corte europea dei diritti umani abbia riconosciuto che la dignità della ricorrente è stata calpestata dall’autorità giudiziaria» ha commentato l’avvocata Titti Carrano, che ha rappresentato la ragazza, all’epoca dei fatti 22enne. «La sentenza della Corte d’appello di Firenze ha riproposto stereotipi di genere, minimizzando così la violenza, e ha rivittimizzato la ricorrente, usando anche un linguaggio colpevolizzante. Purtroppo, questo non è l’unico caso in cui la non credibilità della donna si basa sulla vivisezione della sua vita personale, sessuale. Questo succede spesso nei tribunali civili e penali italiani» ha aggiunto.
La sentenza censurata dalla Cedu è quella della Corte d’appello di Firenze che nel 2015 aveva assolto sei imputati, annullando la precedente condanna di primo grado (il settimo imputato era già stato assolto dal Tribunale). All’epoca aveva suscitato critiche e anche le proteste delle associazioni contro le violenze sulle donne. Riguardava una vicenda che è diventata nota come «lo stupro della Fortezza da Basso» (anche se la giustizia italiana ha sancito che non si sia trattato di uno stupro): la violenza denunciata da una giovane di Scandicci, all’epoca 22enne, al termine di una serata passata insieme a un gruppo di conoscenti.
La ragazza aveva raccontato di aver raggiunto un giovane che conosceva alla Fortezza da Basso e di aver passato la serata fino a notte fonda insieme agli amici di lui, che l’avevano ripetutamente fatta bere, e che al momento di andarsene avevano iniziato a palpeggiarla mentre la trasportavano a braccia (perché era troppo ubriaca per camminare da sola) e poi violentata a turno in auto. Quando l’avevano riaccompagnata alla sua bici aveva chiamato in lacrime il ragazzo con cui aveva una storia, e gli aveva raccontato quanto successo. Il giorno dopo era andata a fare denuncia. Gli imputati avevano raccontato gli stessi fatti, ma sostenendo che il rapporto di gruppo fosse stato consensuale, l’esito di un crescendo di ammiccamenti e allusioni sessuali alimentati dall’alcol. In primo grado i giudici avevano creduto a lei, in secondo grado a loro. Il terzo grado non c’è stato perché la Procura ha rinunciato a fare ricorso e la sentenza di assoluzione è diventata definitiva.
I giudici di secondo grado dunque non hanno ritenuto credibile la ragazza sostenendo che la denuncia di stupro era solo il frutto del suo pentimento: erano state proprio le motivazioni addotte per spiegare la sua supposta mancanza di credibilità ad aver suscitato le critiche. E adesso anche la condanna della Cedu, che però non entra nel merito dell’assoluzione. Nella sentenza della Corte di Appello di Firenze (il testo integrale era stato pubblicato dal blog femminista Abbattiamo i muri) per ricostruire il contesto si citavano infatti particolari in gran parte irrilevanti o addirittura senza senso: il fatto che gli imputati avessero intravisto «gli slip rossi» della ragazza mentre cavalcava un «toro meccanico» su cui erano saliti durante la serata. Il fatto che quella sera avesse avuto un precedente rapporto sessuale consenziente con un barista di un locale della zona. Il fatto che avesse già avuto rapporti sessuali occasionali con il giovane che aveva raggiunto alla Fortezza da Basso e il fatto che in passato avesse avuto una relazione lesbica (la ragazza è apertamente bisessuale).
La corte d’Appello di Firenze aveva poi sostenuto che la ragazza avesse denunciato solo «per rispondere a quel discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere», che fino all’uscita dalla Fortezza da Basso «non aveva palesato particolare fastidio per le avances ricevute (strusciamenti e palpeggiamenti) e si era fatta sorreggere fino all’auto”, e che poi «era rimasta come “in trance”, “inerme”, “come un qualcosa in balia della corrente” mentre gli altri effettuavano manovre invasive su di lei, e si erano mostrati “quasi stupiti” quando lei aveva detto basta, recuperando borsa e scarpe uscendo dall’auto» notando che il «rapporto di gruppo» alla fine, «nel suo squallore non aveva soddisfatto nessuno, nemmeno coloro che nell’impresa si erano cimentati» e avevano concluso che «il racconto della ragazza configura un atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, che evidentemente l’aveva condotta a scelte da lei stessa non pacificamente condivise e vissute traumaticamente o contraddittoriamente, come quella di partecipare dopo il fatto al workshop estivo Sex in Transition vicino Belgrado o prima del fatto quella di interpretare un film splatter del regista imputato al processo, intriso di scene e di violenza che aveva mostrato di reggere senza problemi».
Ora la Cedu sancisce che i rilievi sulla bisessualità della ragazza, sulle relazioni romantiche e sulle relazioni sessuali occasionali avvenute prima degli eventi e la scelta di interpretare una prostituta vittima di abusi in un cortometraggio girato con uno degli accusati (il «film splatter») non dovevano essere usati per giudicare la sua credibilità. E che anzi «interrogarla su questioni personali riguardanti la sua vita familiare, il suo orientamento sessuale e le sue scelte intime, talvolta estranee ai fatti» per «minare la sua credibilità» è «chiaramente contrario non solo ai principi del diritto internazionale sulla protezione dei diritti delle vittime di violenza sessuale, ma anche al diritto penale italiano».
La Cedu inoltre fa notare il doppio standard dei giudici: che rimproverano alla ragazza quello che non rimproverano ai ragazzi coinvolti. «La Corte considera inappropriate le considerazioni relative all’”atteggiamento ambivalente della ricorrente nei confronti del sesso”, che la Corte d’appello ha dedotto, tra l’altro, dalle sue decisioni artistiche. Così, la Corte d’appello cita tra queste decisioni dubbie la scelta di partecipare al cortometraggio di L.L. (uno degli imputati, ndr) nonostante la sua natura violenta ed esplicitamente sessuale, senza che – e giustamente – il fatto che lui avesse scritto e diretto il suddetto cortometraggio fosse in alcun modo commentato o considerato come rivelatore dell’atteggiamento di L.L. nei confronti del sesso. Inoltre, la Corte ritiene che il giudizio sulla decisione della ricorrente di denunciare i fatti, che secondo la Corte d’appello era il risultato di una volontà di “stigmatizzare” e reprimere un “discutibile momento di fragilità e debolezza”, e il riferimento alla sua “vita non lineare” sono anch’essi deplorevoli e irrilevanti. La Corte ritiene che i suddetti argomenti e considerazioni della Corte d’appello non sono stati utili per valutare la credibilità del ricorrente, che avrebbe potuto essere esaminata alla luce dei numerosi risultati oggettivi del procedimento, né sono stati decisivi per l’esito della causa. La Corte riconosce che nel presente caso la questione della credibilità della ricorrente era particolarmente cruciale, ed è pronta ad accettare che il riferimento alle sue relazioni passate con i singoli imputati o a certi suoi comportamenti durante la serata possa essere stato giustificato. Tuttavia, non vede come la situazione familiare della ricorrente, le sue relazioni sentimentali, il suo orientamento sessuale o anche la sua scelta di abbigliamento, così come lo scopo delle sue attività artistiche e culturali, possano essere rilevanti per la valutazione della sua credibilità e la responsabilità penale degli imputati».
È un passaggio fondamentale. Come già aveva messo in rilievo il giudice Fabio Roia sulla 27esima Ora, «anche chi ha “una vita non lineare” può essere vittima di violenza». Aver accettato rapporti sessuali, anche occasionali, fino a un momento prima non esclude che non si vogliano più un momento dopo. Ed è giusto così.
Nei molti commenti sui social all’epoca della sentenza fu rimproverato alla ragazza di aver seguito gli imputati fino alla macchina: «Se non voleva farci sesso doveva andarsene». Seguirli, secondo questa logica, significava “mostrare di essere disponibile”. Non solo a salire in macchina: a tutto, rapporto di gruppo compreso. In base a questo modo di pensare la responsabilità, la “colpa”, alla fine era solo della ragazza, che non si era tenuta alla larga.
Bisogna iniziare a pensare diversamente e soprattutto educare i ragazzi maschi a pensare diversamente. C’è un particolare importante in tutto questo: la ragazza non stava in piedi perché aveva bevuto troppo, è stata sorretta e accompagnata fino all’auto. L’articolo 609 bis del codice penale prevede che sia punibile con una pena tra 5 e dieci anni di reclusione «chi induce taluno a compiere o subire atti sessuali abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto». L’ubriachezza è una condizione di inferiorità fisica e psichica. Per secoli i maschi sono stati educati ad approfittare di qualunque occasione per fare sesso (e, in passato, anche a pensare che il no di una donna significasse sempre sì). È sbagliato: devono sapere che “approfittare” di una ragazza che è annebbiata dall’alcol è una violenza sessuale. E che se una persona è troppo ubriaca per dare un consenso significativo, «in trance», «inerme», «come un qualcosa in balia della corrente», soprattutto in un contesto problematico – sette ragazzi con una sola ragazza, tutti ubriachi – nel dubbio è meglio astenersi.
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