Marta Russo, Roma 1997. Un colpo alle 11.42. Ripartiamo da chi c’era quella mattina
Filosofia e giustizia
Non basta di certo l’incongruenza della porta lasciata aperta per dimostrare che il delitto non sia stato compiuto in quella stanza, l’aula assistenti di Filosofia del diritto, ma forse basta per sospettare di un movente così letterario e così evanescente. Impossibile da dimostrare e da confutare. Nel 2003 la Cassazione ha condannato in via definitiva Giovanni Scattone per aver sparato dalla finestra di quell’aula e Salvatore Ferraro per essere stato il suo complice. Il movente rimane sconosciuto e la condanna è per omicidio colposo. Questa storia comincia la mattina del 9 maggio 1997. Sono le 11.42 quando qualcuno spara all’interno della città universitaria di Roma colpendo Marta Russo sotto l’orecchio sinistro, in un punto dove l’osso è molto fragile. Il proiettile si frammenta e lesiona il tronco encefalico, causando un danno irreversibile. Ha ventidue anni, è una studentessa di Giurisprudenza, stava camminando con una sua amica lungo un vialetto interno della Sapienza dopo aver finito una lezione.
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Marta Russo, il «delitto della Sapienza»: la dinamica, i testimoni, la condanna di Scattone e Ferraro La fotostoria
L’arma mai trovata
Le indagini si dimostrano particolarmente difficili fin da subito, perché la scena del delitto è un luogo aperto e sono molti i punti dai quali potrebbe essere partito il colpo. La Polizia inizialmente si concentra sui bagni del piano terra, che sono proprio davanti al punto in cui la ragazza è caduta. Le uscite della città universitaria vengono bloccate e le persone controllate, ma farlo richiede tempo e chi ha sparato potrebbe essere già scappato. Nonostante le ricerche e le perlustrazioni, la pistola e il bossolo non si trovano. Poi c’è qualcosa che fa insospettire gli inquirenti: i dipendenti della ditta delle pulizie dell’università collezionano armi e proiettili, e chiamano il loro magazzino “il deposito delle munizioni”. Il magazzino è proprio accanto al bagno del piano terra che affaccia sul punto dove Marta Russo è stata colpita, gli inquirenti lo considerano un luogo ideale da cui sparare proprio perché ci si può chiudere dentro. Eppure quella pista sarà abbandonata, perché pochi giorni dopo la Polizia scientifica consegna agli inquirenti una perizia destinata a cambiare per sempre il corso delle indagini: c’è un residuo di polvere da sparo sul davanzale di una delle finestre dell’aula 6, l’aula assistenti del dipartimento di Filosofia del diritto, al primo piano dell’edificio arancione che ospita sia la facoltà di Giurisprudenza che quella di Statistica. È un’aula frequentata principalmente dai collaboratori di cattedra, ma ci passano anche borsisti e studenti, ci può entrare chiunque.
Il telefono alza un velo
Le due finestre affacciano sul vialetto ma hanno un davanzale largo più di mezzo metro su cui è montato un condizionatore. Questo è un altro dettaglio importante perché per sparare bisogna sporgersi molto, rimanendo con le gambe a mezz’aria e rischiando di perdere l’equilibrio oltre che di essere visti da tutte le finestre di fronte, non solo da chi eventualmente fosse entrato nella stanza. La domanda cui, in questa fase delle indagini, gli inquirenti devono dare una risposta è: chi c’era in quella aula all’ora del delitto? Quando il capo della Squadra mobile entra nella stanza vede un telefono accanto alla porta. Controllando i tabulati telefonici scopre che sono state fatte due telefonate poco dopo lo sparo, una alle 11.44 diretta a casa Lipari e una alle 11.48 allo studio Lipari. È ovvio pensare che a telefonare sia stata la dottoranda Maria Chiara Lipari, figlia di Nicolò, un professore ordinario della stessa facoltà ed ex parlamentare della DC. Maria Chiara Lipari è la prima testimone. Che cosa ha visto? Che cosa ricorda di quella mattina del 9 maggio? E che cosa ha fatto nei quattro minuti tra la prima e la seconda telefonata?
Versioni e ricostruzioni diverse
Le versioni di Lipari sono molte e molto diverse tra loro: inizialmente giura che nella stanza «non c’era nessuno» poi dice che «c’erano alcune persone, tra le quali Gabriella Alletto», una segretaria dell’Istituto di Filosofia del diritto. Dopo vari interrogatori e molti giorni dopo il fatto, dopo aver detto più volte al telefono che gli inquirenti le facevano pressioni anche se «non stava né in cielo né in terra che io avessi qualcosa in più da dire», metterà a verbale di aver visto un assistente universitario all’interno della stanza e vicino alla finestra, Salvatore Ferraro. Quello che possiamo dire con certezza è che nelle sue varie ricostruzioni, frutto di ricordi che lei stessa definisce «subliminali», Lipari si è già sbagliata a collocare alcune persone nella stanza, persone che hanno un alibi che gli inquirenti hanno potuto verificare. Sappiamo anche che sbaglia quando racconta di essere uscita dall’aula 6 tra la prima e la seconda telefonata. Quelle telefonate, si scoprirà in seguito, sono infatti attaccate e lei non può aver avuto il tempo di andare in segreteria o in aula fax come dice di aver fatto.
Due date, un destino
La segretaria Gabriella Alletto, poi, conferma la versione di Lipari? No, dice di non essere mai entrata in quell’aula. Intercettata però confessa di aver paura di essere messa in mezzo. L’11 e il 14 giugno sono due date che cambieranno per sempre il destino di questa storia. L’11 è il giorno in cui Alletto viene interrogata dai pubblici ministeri. Alletto continua a dire di non essere mai entrata e in lacrime domanda «ma se io una persona la vedo, la vedo, ma se non la vedo io che faccio?». Con lei c’è il cognato, che è anche un ispettore di polizia. Perché fosse lì e che ruolo abbia avuto durante le indagini sono due dei tanti aspetti mai davvero chiariti di questa vicenda. I pubblici ministeri, più volte, le dicono che o parla oppure in galera ci va lei. «La prenderemo per omicida» le urla uno dei pm. Questo interrogatorio è interamente videoregistrato da una telecamera nascosta nella libreria; siamo abituati ad ascoltare le intercettazioni degli indagati e degli imputati, ma è la prima volta che possiamo ascoltare le domande degli inquirenti e assistiamo ai metodi di un interrogatorio. Forse uno dei momenti più inquietanti è quello in cui Alletto rimane sola con il cognato e gli dice a bassa voce «eh bisognerebbe sapere chi è quell’altro oltre a Ferraro». L’impressione, ascoltando quelle parole e il tono con cui vengono pronunciate, è che la segretaria si sia convinta a parlare e a fare dei nomi, ma non sappia quali fare. La sera dell’11, dopo aver giurato sulla testa dei propri figli di non aver mai messo piede in aula 6 quella mattina, Alletto torna a casa. Probabilmente ripensa a quello che le hanno appena detto i magistrati: se non si decide a parlare, sarà lei a essere indagata per omicidio.
Un mese passato invano
Passano tre giorni e il 14 giugno la segretaria cambia versione: «Ho visto Scattone con la pistola in mano e Ferraro mettersi le mani nei capelli in un gesto di disperazione». Perché non l’ha detto prima? Per più di un mese Gabriella Alletto ha giurato il contrario, con gli inquirenti, con le persone dell’Istituto e con gli amici. Ha mantenuto buoni rapporti con i due imputati, ha lavorato fianco a fianco con Ferraro, ha scherzato rispondendo al telefono «pronto, filosofia del delitto». Perfino il giorno in cui mette a verbale di aver visto Scattone con una pistola in mano e Ferraro al suo fianco, alla persona che la accompagna in commissariato per fare la deposizione, dice di non essere proprio entrata in quella stanza la mattina del 9 maggio.
Due arresti e una particella
Quella sera, pochi minuti dopo aver fatto i nomi di Scattone e Ferraro, i due vengono arrestati. Interrogati, entrambi non ricordano con esattezza dove fossero alle 11.42 di cinque settimane prima, ma dicono di essere innocenti, come continueranno a dire durante tutto il processo e come hanno ripetuto a noi l’anno scorso. Il processo comincia alcuni mesi più tardi, ed è proprio durante le prime udienze che emerge uno degli elementi più incredibili di tutta questa vicenda. Riguarda la particella di polvere da sparo che la Polizia scientifica ha trovato sul davanzale dell’aula assistenti di Filosofia del diritto. Si tratta della scoperta che ha rivoluzionato la direzione delle indagini, quella da cui è cominciato il percorso investigativo che ha poi portato agli arresti dei due assistenti di quell’Istituto. La stanza, il telefono, la testimonianza della dottoranda e poi quella della segretaria, l’insistenza e le pressioni degli inquirenti sicuri che qualcuno da lì avesse sparato.
Perizie e dubbi
La Corte incarica alcuni esperti per avere risposte sulla traiettoria dello sparo, sulla tipologia del proiettile e sul tipo di arma usato. Sono loro a dire in un’aula di tribunale che sulla traiettoria non si può stabilire nulla di sicuro, si possono soltanto fare delle ipotesi, ma soprattutto che l’arma utilizzata e il suo innesco non sono compatibili con la particella di polvere da sparo trovata dalla Scientifica sul davanzale. Non solo, quel granello di polvere non è neanche con certezza un residuo di uno sparo, potrebbe essere un residuo dei freni di una macchina o di una stampante. Oggi queste affermazioni sono considerate ovvie: la composizione binaria di bario e antimonio, quella della particella trovata in aula 6, non è esclusiva. Lo conferma la letteratura scientifica in materia, come i bollettini ufficiali europei, dell’FBI o di Scotland Yard. Insomma, la perizia della Polizia scientifica che è la premessa di tutta questa storia è sbagliata. E tutto quello che rimane dell’ipotesi accusatoria sono le testimonianze oculari, tardive e contraddittorie, le più fragili e inaffidabili delle prove. In generale, le testimonianze dovrebbero solo indirizzare, indicare, suggerire la strada giusta per trovare le prove scientifiche, non sostituirle. Eppure le testimonianze di Lipari e Alletto vengono considerate sufficienti per dimostrare la colpevolezza di Scattone e Ferraro. Le due testimoni sono giudicate attendibili, nonostante non solo entrambe abbiano cambiato versione nel tempo, ma le loro due versioni definitive e ufficiali della stessa scena divergano su molti dettagli importanti.
Le condanne e le domande
Scattone e Ferraro vengono condannati in primo grado e in via definitiva. La Cassazione però decide di ridurre la pena: cinque anni e quattro mesi a Scattone e quattro anni e tre mesi a Ferraro. È una condanna che sembra un compromesso e rischia di scontentare tutti. Troppo leggera per chi li crede colpevoli di aver ucciso una ragazza, forse per un errore o per un gioco crudele. E sbagliata per chi invece li crede innocenti. La pistola e il bossolo non saranno mai trovati, non sappiamo con certezza da dove si è sparato, non c’è un movente e ci sono tante altre domande alle quali non è stato possibile rispondere. Dove aveva preso Scattone la pistola? Perché se l’era portata all’università se non aveva l’intenzione di usarla, visto che secondo la condanna nessuno aveva premeditato l’omicidio? Dov’è finita? E poi c’è la domanda più spaventosa: se Scattone e Ferraro non hanno sparato, chi ha ucciso Marta Russo?
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