Arabia e Rinascimento: dai giornali, ‘il meglio del peggio’ nell’ottica di Ferdinando Terlizzi
Per un certo senatore del contado fiorentino, tra i tiranni sanguinari dell’Arabia Saudita è sbocciato un Nuovo Rinascimento.
E quel «terrorista internazionale che risponde al nome di Henry Kissinger» (Luis Sépulveda) torna a parlare agli italiani per dire che Gianni Agnelli «era uomo del Rinascimento”.
Il Rinascimento, è vero, non può querelare, ma non per questo è giusto lasciarlo massacrare.
C’è qualcosa di sordido in questa continua strumentalizzazione, fondata sulla più crassa ignoranza.
E viene da risponder che è meglio vedere crudamente la decadenza infinita di questo nostro tempo, che imbellettare un cadavere per presentarlo in costume rinascimentale.
Un fiorentino che il Rinascimento lo conosceva davvero, Piero Calamandrei, dopo aver pianto le rovine dei ponti e del centro di Firenze fatti saltare dai nazisti, aggiungeva: “Eppure tutto questo non è stato il peggio: perché l’Italia in questi anni ha dovuto soffrire strazi anche più profondi.
Questi ponti frantumati, queste case d’Oltrarno che ora precipitano nel fiume come una valanga di macerie, sono resti sacri, rivestiti, nel loro cordoglio di dignità e fierezza: quasi vien voglia, quando vediamo queste rovine, di inginocchiarci e baciarle.
Ma poi ricordiamo la vergogna delle case d’Oltrarno ritinte e dei ponti ripuliti con colori di finto antico per presentarli in bella apparenza al barbaro padrone che veniva a visitare il suo feudo (…).
E ripensando a quegli anni di umiliazione, ecco, noi sentiamo che le nostre città preferiamo cento volte vederle in rovina ma fiere come sono ora, piuttosto che vendute e mascherate e insozzate come sono state per vent’anni.
Questi gaglioffi ladri e sanguinari hanno nascosto per vent’anni al mondo civile il volto dell’Italia vera”.
Calamandrei preferiva il Rinascimento in macerie a quella oscena mascherata del finto Rinascimento che fu allestito nel 1938 per la visita a Firenze di Hitler.
Eterna retorica dei nuovi Rinascimenti al servizio dei nuovi padroni: non importa quanto indegni.
Di fronte alle riproposizioni attuali di questa micidiale miscela di ignoranza e servilismo, non vale certo la pena di disturbare l’alto dibattito sulla genesi del mito del Rinascimento che tra Otto e Novecento vide impegnati Burckhardt, Huizinga, Cantimori e tanti altri.
È infatti evidente che le fonti dei settatori di questi nuovi rinascimenti prêt-à-porter sono semmai le fiction TV sui Borgia, e i polpettoni di Dan Brown.
Epperò qualcosa sul vero Rinascimento converrà pur dirla, visto che rischia di passare l’idea che in fondo anche quei celebrati protagonisti del nostro Quattrocento fossero nient’altro che una manica di torturatori, parassiti, ereditieri indolenti: a un passo dal far immaginare Lorenzo il Magnifico con l’orologio indossato sopra il polso del lucco, o con in testa il ghutra saudita al posto del mazzocchio.
Il punto vero riguarda proprio il rapporto tra discorso pubblico e comune senso della decenza, della moralità pubblica.
Non c’è alcun dubbio che potere, denaro e violenza siano impastati nella storia del Rinascimento: come in quelle di qualsiasi periodo storico, presente compreso.
Ma quel che colpisce, conoscendo le vite e le mentalità degli inventori del Rinascimento (a partire da Cosimo de’ Medici), è proprio il rapporto tra la consapevolezza delle proprie colpe e l’urgenza di riparare ad esse attraverso la restituzione alla collettività di ciò che essi sentivano di aver indebitamente sottratto per sé stessi.
Cosimo era un uomo tormentato, assillato: “Le sue stesse ricchezze – ha scritto Ernst Gombrich – lo accusavano; non era possibile essere un banchiere senza infrangere le disposizioni contro l’usura, di qualunque tipo fossero i sotterfugi tecnici per eluderle (…) l’unico modo per sfuggire al marchio d’infamia (…) era ridar tutto ai poveri”.
Cosimo era probabilmente l’uomo più ricco del mondo: andando a letto, ogni sera, egli pensava ai propri peccati, e aveva la lucida onestà di riconoscere che quei soldi non erano del tutto suoi, e non erano del tutto puliti.
Quando il nipote, Lorenzo il Magnifico, si congedò dai propri figli, indicò loro un certo “quadernuccio”: in quelle pagine consunte erano annotate le cifre astronomiche che il padre e il nonno avevano donato – meglio, avevano restituito – a Firenze in atti di carità e in edifici pubblici (i capolavori architettonici del Rinascimento, appunto): nel giro di sessant’anni la famiglia Medici restituì alla città di Firenze più di tre volte il patrimonio del suo fondatore.
Esattamente il contrario di ciò che pensano gli attuali protagonisti dei Nuovi Rinascimenti, che vorrebbero esser fatti “santi subito” non espiando ma, anzi, autocelebrando la loro accanita coltivazione dei propri interessi a scapito, quando non in danno, degli interessi pubblici.
Privatizzando tutto: anche il Rinascimento.
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)