Rifiuti nucleari, il dilemma irrisolto: ecco dove sono oggi le scorie che in Italia nessuno vuole
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Rifiuti nucleari, il dilemma irrisolto: ecco dove sono oggi le scorie che in Italia nessuno vuole
Un emendamento al Milleproroghe allunga i tempi per decidere se e dove costruire il Deposito nazionale. La Sogin è pronta, ma nei territori papabili è rivolta: intanto centrali dismesse e centri di ricerca sparsi nel Paese continuano a custodirli
di Marco Patucchi
“NEL giugno e settembre 2019 si sono verificati due diversi eventi di guasto elettrico, che non hanno generato impatti dal punto di vista della sicurezza nucleare e protezione sanitaria”. L’indicazione, riferita alla Centrale di Caorso, spunta tra le righe dell’Inventario nazionale dei rifiuti radioattivi. E’ una notizia nella sostanza rassicurante, ma che in filigrana propone un punto di vista poco esplorato nelle periodiche polemiche sul progetto di Deposito nazionale “unico” delle scorie nucleari. Come a dire che il problema non si risolve negandone l’esistenza.
E’ di questi giorni l’emendamento al Milleproroghe, che aumenta da 60 a 180 i giorni a disposizione degli enti locali per presentare le osservazioni sulla mappa delle aree idonee per il Deposito. Una consultazione pubblica che la Sogin, la società statale responsabile del decommissioning nucleare e della gestione dei rifiuti, ha già avviato. Più tempo a disposizione, dunque, a vantaggio della chiarezza, ma comunque un ulteriore allungamento dei tempi su una decisione che l’Italia attende da vent’anni e che viene regolarmente rinviata in nome del mantra Nimby (“Not in my back yard”). Sono ormai passate alla storia le due settimane di rivolta, nel 2003, di Scanzano Jonico, il paese della Basilicata scelto dal governo Berlusconi per localizzare il Deposito nazionale. E un remake di una rivolta più diffusa c’è stato quando, a inizio gennaio scorso, l’esecutivo ‘Conte 2’ ha pubblicato la mappa dei territori papabili: 67 zone sparse sull’intero territorio nazionale, che coinvolgono sette regioni e rispondono ai 25 criteri geologico-sociali.
Nessuno vuole la struttura in casa, nonostante il volano economico intrinseco (per dire, in Francia è nella regione dello Champagne e nei Paesi scandinavi sono previsti risarcimenti economici ai territori scartati dalla scelta). Ma è come nascondere la polvere sotto il tappeto, perché i rifiuti radioattivi in Italia ci sono e, magari senza grandi polemiche, continuano ad essere custoditi in una ventina di Comuni sparsi per l’intero stivale. Centrali nucleari spente e in smantellamento, reattori sperimentali, centri di ricerca, depositi di aziende specializzate, puntali di parafulmine, scarti della radiografia medica, rilevatori di fumo: complessivamente 31.027,3 metri cubi (destinati a triplicarsi in prospettiva per l’ultimazione dei vari lavori di decommissioning e bonifica) con diverse caratteristiche di rischio: rifiuti a vita molto breve (che si smaltiscono come quelli convenzionali); rifiuti di attività molto bassa e rifiuti di bassa attività (che diventano innocui nell’arco di 300 anni); rifiuti di media attività e di alta attività (migliaia o centinaia di migliaia di anni di vita). E non va dimenticato il combustibile esaurito “parcheggiato” fino al 2025 in Francia e Regno Unito.
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Proprio questa “distinta” serve a valutare la classifica regionale dei rifiuti, perché se è vero che Lazio (9.284 metri cubi) e Lombardia (6.147) precedono il Piemonte (5.605) in termini di volumi, è quest’ultima a presentare l’indice più alto di radioattività. Dovranno finire tutti nel Deposito nazionale che avrà bisogno di almeno quattro anni per la costruzione. Ma che resta appeso alle dinamiche carsiche della politica nazionale e locale, sempre a caccia di consensi elettorali. Lo scorso anno, per esempio, c’è stato un momento nel quale la partita del Deposito nazionale sembrava davvero risolta: il progetto, infatti, era stato inserito nel programma italiano del Recovery Plan, prevedendo dunque un vincolo, quello europeo, senza se e senza ma. Però la paginetta preparata dal Mise è poi scomparsa dalla circolazione.
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A scorrere l’Inventario nazionale dei rifiuti radioattivi, si incontra l’intera storia del nucleare italiano: dal primo reattore attivato nel 1959 nel Centro comune di ricerca di Ispra (Varese) oggi gestito dalla Commissione europea, alla prima centrale nucleare, quella di Borgo Sabotino (Latina) progettata dall’Eni di Enrico Mattei e inaugurata nel 1964; dalle altre tre centrali bloccate dal referendum post-Chernobyl (Caorso, Trino, Garigliano) ai centri di ricerca dell’Enea. La stragrande maggioranza fa capo alla Sogin. Nel piano industriale 2020-2025 viene ribadita, tra le missioni, “il mantenimento del presidio di competenze per la realizzazione e l’esercizio del Deposito nazionale Parco tecnologico”, nell’attesa del nulla osta alla pubblicazione della Carta nazionale dei territori idonei: il nulla osta e la pubblicazione sono arrivati, così come, puntuali, le polemiche a livello locale. Ora è il turno del governo Draghi di provare a sciogliere una volta per tutte la questione. Nimby o non Nimby.
FONTE: LA REPUBBLICA
(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)
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