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Niente paura: il pubblico ministero è già un quarto potere

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Niente paura: il pubblico ministero è già un quarto potere

 A rafforzarlo ancora non sarebbe certo la pdl delle Camere penali. Le nostre proposte vanno oltre la separazione delle carriere, perché non dibattere laicamente delle idee dei penalisti?

Sulle pagine di questo giornale il Dott. Alberto Cisterna, commentando l’intervista del 12 gennaio del Presidente di Anm, Dott. Giuseppe Santalucia, in merito al tema della separazione delle carriere dei magistrati, e quella “in risposta” del giorno successivo del Presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza, ha fatto affermazioni condivisibili ed altre che meritano, invece, una riflessione critica.

Partiamo dalle prime, selezionando unicamente quelle di maggior rilievo. L’attuale relazione tra Giudice e Pubblico Ministero “appare a molti del tutto insoddisfacente poiché fortemente marcata da una sorta di prepotere processuale – tendenzialmente onnivoro rispetto alle cadenze formali dell’indagine preliminare – e da una esibita prepotenza mediatica della funzione inquirente”. Difficile esprimersi con parole più adeguate.

Ancora, a proposito del punctum dolens: “Il nuovo codice – e anche i meccanismi della carriera e della responsabilità civile dei magistrati – hanno incentivato una sorta di innaturale compartecipazione e, in molti casi, di vera e propria cogestione delle indagini preliminari tra pubblico ministero e gip”.

Ed infine: “Dall’istituzione del cosiddetto Tribunale della libertà (1982) in poi è stato tutto un continuo dilatarsi della presenza giurisdizionale nelle istruttorie (sino al 1989) e nelle indagini (a oggi) curate dagli inquirenti, con risultati del tutto insoddisfacenti se si guarda all’esito di molti dibattimenti e alle messe di assoluzioni che intervengono dopo lunghe carcerazioni e straripanti intercettazioni“. Oggettivamente innegabile.

La soluzione della separazione delle carriere proposta dall’Ucpi non sarebbe però corretta, perché porterebbe all’ergersi formale di un “quarto potere” rappresentato dal Pubblico Ministero, ormai svincolato dal giudice, un’enclave chiuso insieme a migliaia di uomini della polizia giudiziaria posti alle sue dipendenze. Si creerebbe, secondo il Dott. Cisterna, una condizione unica in tutte le democrazie occidentali.

Ipotizza, quindi, di sciogliere il connubio tra giudice e pm, sostanzialmente eliminando la presenza del giudice nella fase delle indagini, di modo che torni ad essere un soggetto indifferente rispetto all’esito delle stesse. Indagini brevi, limitazione delle misure cautelari e delle intercettazioni e restituzione al pm i poteri previsti da codice di rito previgente; “Certo, ovvio, limitandone oltremodo i poteri coercitivi”.

Qualche rilievo critico. Il primo e più scontato è che il pm rappresenta già, a tutti gli effetti, “un quarto potere” (come autorevolmente affermato dalle pagine di questo giornale dal Prof. Sabino Cassese), che esercita discrezionalmente l’azione penale, disponendo della polizia giudiziaria, in indagini prive di limiti, che consegnano alla gogna mediatica la “verità” della pubblica accusa, destinata a restare tale, in alcuni casi, perfino dopo le sentenze assolutorie che giungono dopo anni. Indagini rispetto alle quali anche i giudici, che pervengano ad esiti assolutori, risultano delegittimati di fronte all’opinione pubblica. È difficile immaginare una qualunque modifica costituzionale che possa ulteriormente aumentare il potere di cui dispone oggi il Pubblico Ministero.

 Quanto alla condizione unica rispetto alle altre democrazie occidentali, come rilevato anche dalla Commissione Europea per le Democrazie del Consiglio d’Europa: “In numerosi paesi la polizia giudiziaria è, in linea di principio subordinata alle direttive del pubblico ministero” (Rapporto sulle norme europee in materia di dipendenza del sistema giudiziario: parte II – Il pubblico ministero, Venezia – 17-18 dicembre 2010).

Né il quadro muta considerando che negli altri stati, normalmente, il pm risponde al potere esecutivo, poiché come rilevato dalla già ricordata Commissione “in alcuni paesi, la subordinazione del pubblico ministero al potere esecutivo è più una questione di principio che una realtà, dal momento che l’esecutivo si dimostra in realtà particolarmente attento a non intervenire nei singoli procedimenti”. Non può dirsi, quindi, come fa il Dott. Cisterna che gli altri “sistemi che tollerano una radicale separazione di carriere tra inquirenti e giudici lo fanno solo a patto di una totale indipendenza della polizia giudiziaria dai pubblici ministeri e di una completa e assoluta soggezione degli stessi pm alle prescrizioni di politica criminale provenienti dal governo”.

Si immagina qualcosa che (fortunatamente) non esiste e non potrebbe esistere nel quadro normativo europeo e Cedu. E si aggiunga che nessuno “tollera” la separazione tra giudici e pm, questa è semplicemente la regola in ogni sistema a democrazia evoluta, mentre l’unitarietà è propria dei sistemi illiberali e meno “inclini” al rispetto delle garanzie e dei diritti umani.

Non a caso in Europa il sistema è unitario, oltre che in Italia (ed in Francia, ove vige però ancora il codice inquisitorio ed in ogni caso il Consiglio Superiore ha due sezioni diversamente composte per giudici e pm): in Turchia, Romania e Bulgaria. Non esattamente modelli di democrazia a cui tendere. Non pare, quindi, ragionevole preoccuparsi di una minaccia che già è realtà, o di creare un sistema che costituisce la regola in tutte le democrazie evolute (pur con assetti diversi da quello proposto dall’Ucpi, rispetto alla dipendenza, spesso solo formale, del pm dall’esecutivo).

Deve aggiungersi però, a questo punto, a fronte di una critica mossa dal Presidente di Anm secondo cui la legge sulla separazione delle carriere stenta ad andare avanti “perché sconta una pericolosa incompletezza del disegno ricostruttivo”, che per giudicare il disegno bisognerebbe guardarlo tutto e non solo un pezzo, per poi concludere che è monco.

La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare dell’Unione non si basa esclusivamente sulla separazione delle carriere e al contempo non compone, da sola, l’immagine della magistratura che vorremmo. Si propone, infatti, per migliorare la qualità della giurisdizione e contrastare, almeno in parte, l’autoreferenzialità corporativa della magistratura, che la legge possa prevedere la nomina di avvocati e professori a tutti livelli della magistratura giudicante.

Si tratta del cosiddetto “reclutamento laterale”, finalizzato a portare in magistratura le esperienze professionali di altri operatori o studiosi del diritto. Nei paesi ove vi sono magistrature burocratiche come la nostra (alla quale si accede per concorso), attingere ad altre risorse è la norma. In Francia, ad esempio, questo fenomeno negli ultimi anni è molto cresciuto ed ora circa il 30% del corpo magistratuale è costituito da “professionisti in riconversione”: avvocati, funzionari pubblici, professori, ma non solo, anche rappresentanti di associazioni dei consumatori, amministratori di aziende, amministratori pubblici.

La Scuola Superiore della Magistratura Francese, recluta circa cinquecento allievi all’anno, dei quali la metà appartiene alle categorie sopra indicate, realizzando così una magistratura aperta, multiculturale e, al contempo, specializzata. Con questi presupposti, un percorso di formazione comune, tra giudici, magistrati d’accusa e avvocati, che crei una comune cultura della legalità, è certamente auspicabile. Va chiarito poi che separazione delle carriere e delle funzioni sono concetti distinti e come tali andrebbero trattati.

Una volta creati due diversi sistemi ordinamentali autonomi, uno dal quale dipendono i giudici e uno dal quale dipendono i pm (alimentati anche con il “reclutamento laterale”), nulla vieta che si possa transitare, magari per concorso, ma non necessariamente, da un sistema all’altro e dunque, da una funzione all’altra; anzi sarebbe auspicabile, in particolare, che il giudice arricchisse con la sua cultura e la sua esperienza la funzione di magistrato d’accusa. Anche in questo caso, nella maggior parte degli altri paesi si tratta di dinamiche assolutamente usuali.

Si propone poi di riequilibrare la componente laica all’interno del Csm, pur mantenendo la maggioranza di togati, poiché l’esperienza ha dimostrato, anche alla luce dell’emersione della vicenda Palamara, che rapporti tra politica e magistratura esistono e, se non sono gestiti in piena trasparenza nelle sedi istituzionali, scorrono come fiumi carsici nelle sale degli alberghi.

 Si vorrebbe introdurre un correttivo all’obbligatorietà dell’azione penale, nel senso che la stessa, pur obbligatoria, debba essere esercitata nei casi e nei modi previsti dalla legge, posto che ad oggi questo rappresenta uno dei punti più dolenti del sistema, poiché la scelta resta consegnata all’arbitrio del pm (privo di qualunque controllo e responsabilità a riguardo). Ma la proposta di modifica costituzionale non esaurisce, appunto, il quadro. L’Unione immagina che si debbano limitare i contatti tra magistrati e politica.

Come osservato dal Prof. Cassese dalle pagine del Riformista non si comprende perché i magistrati  “occupano il Ministero della giustizia, che è parte in un diverso potere dello Stato, quello esecutivo”. Vi sarebbe da aggiungere che occupano anche altri ministeri e non solo. Riteniamo poi, come ricordato dal Presidente Gian Domenico Caiazza, che sia indispensabile tornare ad un sistema effettivo ed affidabile di valutazione e di “promozione” (di questo parla l’art. 105 della Costituzione), poiché in nessun altro paese al mondo il 99,9% delle valutazioni di professionalità danno esito positivo, con l’effetto che tutti i magistrati, una volta superato il concorso, possono essere certi che arriveranno al massimo livello di carriera possibile, con l’effetto che essendo tutti ugualmente “eccezionali”, quando si tratta di assegnare incarichi direttivi e semi-direttivi si apre la via all’arbitrio e all’influsso delle correnti di Anm. Infine, per venire ai rimedi prospettati dal Dott. Cisterna, far scomparire il giudice dalle indagini forse lo allontanerebbe un poco dall’abbraccio del pm, ma consegnerebbe definitivamente a quest’ultimo quella che è divenuta la fase centrale e più incisiva del procedimento, senza nessuna garanzia neppure rispetto ad un’eventuale riduzione dei tempi dell’indagine stessa, che in teoria è condivisibile, ma in pratica non sarebbe attuabile.

Al contrario, il nostro disegno lo immagineremmo così: un giudice terzo e dunque libero da ogni condizionamento interno, autorevole, arricchito dal reclutamento laterale e da una formazione comune agli altri attori del processo, professionalmente effettivamente valutato e selezionato nella progressione di carriera, che rappresenta il limite all’enorme potere del pm, controllando realmente i tempi delle indagini (attraverso la retrodatazione dell’iscrizione della notizia di reato, con la sanzione dell’inutilizzabilità degli atti compiuti fuori termine) e le richieste limitative della libertà personale dell’indagato (prime tra tutte: misure cautelari e intercettazioni).

Un pm autonomo, ma non chiuso e autoreferenziale, né per accesso, né per formazione e magari se questo non basta a garantire da un potere così temibile (quale già ora è), con un Csm dei magistrati di accusa che sia composto, per la parte togata, non solo da pm (come da noi proposto), ma anche da giudici. Certo possiamo sbagliare e ogni proposta è perfettibile, però ci piacerebbe che si cominciasse laicamente a parlare di quello che gli avvocati penalisti propongono, guardando tutto il quadro, magari per renderlo più bello, piuttosto che rappresentare la necessaria unitarietà delle carriere come le colonne d’Ercole, limite ultimo delle terre conosciute, oltre il quale si celano l’ignoto e inimmaginabili insidie.

Fonte: di Rinaldo Romanelli* Il Riformista, 16 gennaio 2021/ *Responsabile dell’Osservatorio Ordinamento Giudiziario dell’Unione camere penali

 

 

 

 

 

 



(Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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