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Attualità

Quando l’autostrada non c’era: ricordi di viaggio da S.Maria C. Vetere a Ferrara

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Nel settembre 1962 fu completata l’Autostrada Roma-Napoli e credo di non esagerare se dico che la mia famiglia fu tra le prime di S. Maria C.V. a percorrerla.

Avevo 12 anni, lasciavamo un percorso storico e sentimentale. Già, perché fino ad allora il nostro ruolino di marcia era sempre stato il seguente: con la nostra mitica 600 grigio topo con le fasce bianche agli pneumatici e poi con la 750 verdina si partiva alle 4 del mattino da Santa Maria, si passava per Capua, da lì per l’Appia a Pastorano, Pignataro, Calvi Risorta, Sparanise, Francolise,  Teano, Carinola, Sessa Aurunca. Poi si attraversava Marina di Minturno, Scauri, Formia, Itri, Fondi, Monte San Biagio ed infine Terracina.

Perché infine? Perché lì si arrivava all’incirca alle 7 e mezza, ed era un rito la sosta al bar di Piazza della Repubblica.

Tutti a fare la pipì, poi a prendere un cappuccino con le magnifiche bombe alla crema che ancora primeggiano tra i miei ricordi. Mamma, che bontà! Era uno dei cappuccini che più piaceva a mia madre, per l’abbondanza della schiumetta con quella spolveratina di cacao…

Dopo aver dato una controllatina all’auto, ed in particolare alla temperatura dell’acqua del radiatore e dopo esserci sgranchiti un po’ le gambe, si ripartiva.

Mia sorella era una soddisfazione, riprendeva subito a dormire, mentre io con gli occhi sgranati guardavo perennemente fuori dal finestrino per imprimere nella mia mente le immagini del viaggio. Ero curioso, sono sempre stato curioso.

Percorsa via Roma, si usciva da Terracina lungo l’Appia. Da lì in poi la Via Appia diventava dritta, un rettifilo, e prendeva il nome de la fettuccia di Terracina, percorrendo il piatto Agro Pontino, per via del suo tracciato noiosamente in linea retta. Così fino a Priverno, poi Sabaudia, Pontinia, Latina. Seguiva Cisterna di Latina, e poi si entrava in un gruppo di cittadine bellissime che costituivano i famosi Castelli romani, Velletri, Genzano, Ariccia, il ponte di Ariccia, Albano Laziale, Castel Gandolfo, il lago di Albano, Nettuno, Marino, insomma, i fantastici Castelli romani, famosi per il loro vinello allegro, fresco e vacanziero.

E poi, Ciampino, le Capannelle, l’acquedotto Claudio, e ……. Roma!

Arrivavamo sempre a ora di pranzo; noi sapevamo già dove andare: da Giovanni, una trattoria abruzzese nell’angolo sinistro di piazza Trevi, lungo quel tratto di strada che va da via delle Muratte a via dei Crociferi.

Entravamo da Piazza Re di Roma, San Giovanni, Santa Maria Maggiore, via Nazionale, Piazza Venezia, via del Corso. La Capitale era meravigliosa.

Ricordo il pizzardone in piedi sulla sua pedana cilindrica con i suoi gesti spettacolari a dirigere il traffico all’imbocco di via del Corso, un simbolo della Città Eterna.

Sembra impossibile, ma all’epoca si arrivava con l’auto fin dentro piazza di Trevi e si parcheggiava l’auto con il muso che quasi toccava il bordo della Fontana. Altri tempi!

Accompagnati dall’oste Giovanni, che suonava la chitarra cantando gli stornelli romani, ricordo i turisti americani che impazzivano di gioia, e pure noi.

I miei erano da un decennio usciti dalla guerra, e per mia sorella e me era un’esperienza eccitante.

Avevo la sensazione di essere lontanissimo da casa, eravamo partiti alle 4 e dopo un viaggio attraverso paesi e contrade eravamo giunti a Roma all’una e mezza: più di nove ore di viaggio!

Lassatece passà… semo romani,

de li giardini semo li mejo fiori.

De li giardini semo li mejo fiori,

de le ragazze semo l’arubba cori.

Santa Maria Maggiore sona a tocchi,

l’ammore nun è fatto pe’ li vecchi.

L’ ammore nun è fatto pe’ li vecchi,

ma è fatto pe’ li belli giovenotti.

So’ nato pe’ li baci e vojo quelli,

come l’innamorati se li danno.

Come l’innamorati se li danno,

poi chiudo l’occhi e dove vanno, vanno…

 

Ma che ce frega ma che ce ‘mporta

se l’oste ar vino ci ha messo l’acqua

e noi je dimo e noi je famo

c’hai messo l’acqua

nun te pagamo ma però

noi semo quelli

che j’arrisponnemmo ‘n coro

e’ mejo er vino de li Castelli

de questa zozza società.

Si mangiava bene, da Giovanni. Era un bagno nell’allegria. Si respirava aria di rinascita.

Ricordo una bella americana che mi piaceva da morire ma ancora non capivo il perché, che se la cantava, un po’ su di giri per il Frascati freddo… ed io che non riuscivo a staccarle gli occhi da dosso. Quanti bei ricordi…

Poi, la solita monetina che mia mamma lanciata nella Fontana, chissà per quale desiderio……

All’incirca alle due e mezza si ripartiva. Ciao Roma bella, con la tua forza, con la tua allegria, con la tua magica energia, con la tua voglia di rinascere…….

‘Mia sorella sempre a dormire, mia mamma a commentare i bucatini all’Amatriciana di Giovanni, mio padre a commentare la sua lombata ai ferri.

Ora ci attendeva la Cassia, una strada che amavo per la sua varia bellezza.

Ricordo la periferia di Viterbo, le mura medioevali, Montefiascone, che da lassù domina il lago di Bolsena, famosa per l’ Est! Est!! Est!!! e la sua leggenda.

Il nome di questo vino, infatti, era nato da una leggenda. Enrico V di Germania stava andando a Roma per essere incoronato dal Papa Imperatore. Lo accompagnava un Vescovo appassionato di nuovi sapori, e così aveva spedito in avanscoperta un suo uomo, con il compito di individuare, assaggiare e scegliere i migliori vini lungo il tragitto.

Una volta giunto a Montefiascone, questi rimase incantato dalla bontà del vino del luogo, al punto che anziché segnare la cantina con la scritta Est, come gli aveva ordinato il Vescovo, scrisse il messaggio per tre volte. Il vescovo esagerò, e vi morì, si dice per il troppo vino.

Costeggiavamo poi il lago di Bolsena, e dopo essere passati per Acquapendente, entravamo in una delle province più belle d’Italia, la provincia di Siena.

Ricordo la mitica salita di Radicofani, che metteva a dura prova i radiatori delle auto dell’epoca, ricordo le dolci colline di grano. Poi, finalmente, Siena. Una città palcoscenico. Dopo Siena, attraversavamo Monteriggioni e Poggibonsi, Barberino Val d’Elsa, Tavarnelle Val di Pesa e San Casciano.

Eravamo già oltre le otto di sera, il giorno lasciava il posto al buio della sera, e noi ci fermavamo a dormire di solito proprio lì, tra Monteriggioni e Tavarnelle, dipendeva dall’ora e dalla stanchezza dei miei. Mia mamma soffriva di mal di schiena, e dopo tante ore di macchina cominciava a non farcela più.

Prendevamo di solito due camere, in una dormivano mia mamma e mia sorella, nell’altra papà ed io. Mi addormentavo sempre con un po’ di difficoltà, sono sempre stato un tantino ansioso, non vedevo l’ora di ripartire la mattina dopo, il viaggio mi eccitava, e più ci avvicinavamo a Ferrara e più saliva la mia ansia.

Poi finalmente la mattina, e verso le nove, dopo aver dato una controllatina al livello dell’acqua nel radiatore, si ripartiva, ma solo dopo aver fatto colazione al bar prossimo all’albergo, dove prendevamo tutti un bel cappuccino con un cornetto, a me con la marmellata, e via, si andava. Immancabilmente mia mamma faceva i suoi confronti tra il cappuccino appena preso e quelli delle soste precedenti. Firenze era vicina, e vederla era sempre un’emozione.

Occorrevano almeno due ore e mezza per raggiungere Firenze, e poi occorreva almeno un’altra mezz’ora per attraversare la città. Dopodichè, attraversata Firenze, prendevamo a nord della città, da piazza della Libertà, la statale 65 della Futa, che si chiamava, guarda un po’, “via Bolognese” ed attraversavamo San Piero a Sieve e Barberino del Mugello, fino al mitico Passo della Futa a 900 m slm, dove era d’obbligo una bella sosta al bar-tabacchi-albergo-ristorante.

Poi, dopo essere passati per Cavallina, sul lago di Bilancino, si passava per Covigliaio e si entrava in Emilia, dove si incontrava poco dopo Monghidoro, Loiano, Pianoro ed infine arrivavamo a Bologna: ci accoglieva la Porta Santo Stefano, proseguendo dritto oltre la quale si arrivava fin sotto le due torri! Di solito mai prima delle due, due e mezza del pomeriggio.

Ci divideva dal traguardo solo la via ferrarese, così si chiamava.

Si entra e nella nebbia, fitta come una nuvola. La mia monade di Leibniz, il mio mondo, la mia nuvola, che mi avvolgeva e mi accarezzava. A

vevo ritrovato il mio mondo, ero rientrato nel ventre della grande mamma, la Bassa, dai rumori ovattati, dalla nebbia avvolgente e protettiva, mi aspettava il Natale dai nonni. La mia energia vibrava fortissimo.

Eravamo arrivati, il mio cuore era pazzo di gioia.

(di Maurizio Mazzotti – Fonte: Cronache Agenzia Giornalistica – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)

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