Editoriale/ Il covid e riforma del titolo V: il difficile rapporto stato-regioni
Editoriale a cura del prof. Luigi Imperato
La riforma del titolo V della Costituzione del 2001 è basata sul principio della sussidiarietà: il governo del territorio spetta alle istituzioni più vicine ai cittadini, salvo esigenze di coordinamento che richiedono l’intervento delle istituzioni che governano porzioni di territorio più ampie, fino ad arrivare al governo.
Lo spirito dichiarato della riforma era quello di favorire le autonomie dei territori.
È difficile, in astratto, dichiararsi contrari a questo principio. Come non essere a favore delle autonomie o dell’autogoverno dei territori? Ma, se così enunciato, il principio, pur assai condivisibile, si rivela, nel concreto, molto povero, a causa della sua generalità.
Il federalismo all’italiana dà prova, infatti, da vent’anni di non funzionare così bene o forse addirittura di funzionare male.
La lite tra regioni e tra regioni e governo nella gestione dell’emergenza sanitaria è, del resto, una riprova di questo cattivo funzionamento.
In linea di massima, direi che un governo delle autonomie funziona quando i territori sono realmente autonomi, cioè realmente capaci di autogovernarsi.
Senza infingimenti, in Italia ci sono territori capaci di autogovernarsi (più o meno bene, più o meno male, ma comunque capaci di autogovernarsi) e territori che lo sono molto meno, vuoi per il profilo politico della loro classe dirigente, vuoi per la presenza (o l’assenza) di un tessuto produttivo capace di assicurare la tenuta socioeconomica dei territori stessi.
Il federalismo italiano ha, e ha sempre avuto, due gravi limiti che lo hanno reso non funzionale allo scopo.
Il primo è che le istituzioni che dovrebbero governare i territori non hanno alcuna autonomia fiscale. In sostanza, bisogna progettare il governo del territorio, autonomamente, ma non si può programmare questa gestione dal punto di vista fiscale, se non in minima parte, con le tasse locali; occorre aspettare i riparti da Roma, e naturalmente questo genera divisioni e conflitti. È comprensibile che in Italia i territori non possano avere vera autonomia fiscale, perché questo significherebbe rompere il paese.
Il risultato è allora una strana mescolanza tra centralismo e federalismo, che genera un vero e proprio cortocircuito.
Il secondo motivo è che il sistema italiano delle autonomie è tutto centrato sulle regioni, che sono decisamente troppe (è mai possibile pensare di avere 20 diverse classi dirigenti, tutte all’altezza del compito?)
Ma questo non basta: le regioni sono strane istituzioni, che non amministrano ma smistano fondi. Hanno la gestione della sanità, possono progettare infrastrutture, dare finanziamenti ai Comuni per il trasporto pubblico, fare piani di sviluppo, prendere soldi dall’Europa, ma in sostanza non amministrano niente né hanno la possibilità di una vera imposizione fiscale autonoma, con la quale, per esempio, progettare ammortizzatori sociali, forme di sostegno al lavoro nel senso più pieno della parola, etc.
In pratica, possono moltissimo, ma probabilmente non quello che servirebbe davvero. È un disegno che inevitabilmente produce una classe di accaparratori (non che ne mancassero prima della riforma del titolo V, sia ben chiaro) e divisione. Pur non essendo un costituzionalista, immagino che, se si andassero a studiare i ricorsi alla Corte Costituzionale in questi venti anni, si rimarrebbe colpiti dal numero di contenziosi in materia di competenza tra stato e regioni. In occasioni come queste, questa conflittualità latente o patente genera rimpalli di responsabilità, cose del tipo “a me serve che si prenda questa misura, ma la responsabilità devi prendertela tu”. Non è difficile capire perché questo accade, anche se non dovrebbe in alcun modo accadere: è la classe politica quella che è effettivamente vicina alla base elettorale, che subisce le pressioni del territorio e che si trova costretta a fronteggiarne i malumori.
Se il sistema delle autonomie doveva favorire la nascita di nuove e più responsabili classi dirigenti locali, possiamo affermare che il progetto è fallito proprio in quei luoghi (come la Campania e il Sud più in generale) dove ce n’era più bisogno. Se l’intento vero era invece quello di tenere un po’ a freno il malcontento del Nord l’obiettivo è stato in piccola parte raggiunto, a scapito di altri equilibri.
Mi pare arrivato il momento di ripensare questo sistema che manca, e non può che mancare data la configurazione sociale dell’Italia, del tassello finale, che è anche il più importante. E di farlo andando nel merito e non nascondendosi più dietro categorie come “centralismo” e “federalismo”, almeno se queste sono pronunciate con una certa carica ideologica e in mancanza di strumenti di analisi adeguati alla specificità italiana.
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