DIECI ANNI DALLA LEGGE 170/2010, RIFLESSIONI AD ALTA VOCE
Nell’ambito della settimana della Dislessia e delle iniziative online dell’Organizzazione di Volontariato “DiversaMente”, non poteva mancare un momento di riflessione sulla legge 170/2010 a tutela dei DSA. Cosa è cambiato in dieci anni? Cosa manca? A queste domande ha risposto la socia dell’associazione Apollonia Reale (Pedagogista Clinico e Mediatrice Familiare).
“I casi di disturbi dell’apprendimento e soprattutto di dislessia sono in aumento tra gli studenti in Italia. Secondo i dati recentemente diffusi dal Miur, solo negli ultimi quattro anni le certificazioni per dislessia(disturbo nell’imparare a leggere) sono aumentate dell’88,7%, arrivando a toccare quota 177mila, mentre quelle per disgrafia(disturbo nell’imparare a scrivere) sono passate da 30mila a 79mila (+163,4%), quelle per disortografia(disturbo nell’utilizzare il codice linguistico) aumentate del +149,3% e quelle per discalculia(disturbo nel calcolo matematico) salite del 160,5%, toccando circa 87mila casi.”
“I dati, a prima vista, sono sconcertanti. Eppure, posta in questi termini, la questione è fuorviante. Se confrontiamo i dati del 2017 e 2018 con quelli del 2016 e 2017, il dato nazionale è rimasto quasi uguale. Un anno fa si parlava di epidemia della dislessia, ma se i dati non sono analizzati nella giusta chiave creano soltanto scalpore mediatico.
Nel 2010 in Italia l’incidenza dei Dsa era molto bassa, avevamo un serio problema di identificazione. Negli anni siamo passati da un livello di diagnosi minimo a statistiche che comunque sono più basse dell’epidemiologia: per questo, se prima si aveva 0.3% ed è avvenuto un passaggio all’1%, si registra sì un aumento del 230%, ma quella percentuale non dice nulla.”
“In altre parole, il “boom” non è dovuto tanto ai casi di Dsa, «che di per sé ci sono sempre stati» ma all’aumento delle certificazioni, poiché il sistema è diventato più efficiente e preciso. Il 2010 è l’anno della svolta: tramite la legge 170/2010, di cui l’Aid è stata prima promotrice, la dislessia, disortografia, disgrafia e discalculia vengono finalmente riconosciuti quali disturbi specifici dell’apprendimento, avviando sul territorio processi di diagnosi più strutturati.
Prima del 2010, quando non c’era la legge, l’identificazione dei DSA era molto bassa e i bambini venivano trattati come alunni intelligenti che non si impegnavano abbastanza, il che causava alti tassi di dispersione scolastica.
Se oggi si registra un lieve aumento generale del disturbo, è anche perché a livello internazionale c’è una maggiore identificazione. Negli Usa, dove c’è molta attenzione al tema, per esempio, i Dsa hanno incidenze del 5-15% (in Italia sono il 3,2%, ndr), perché il manuale diagnostico è stato revisionato più spesso e comprende persino il disturbo della comprensione del testo».”
“In Italia, oggi, i Dsa si identificano solitamente nella scuola primaria attraverso procedure di screening di identificazione precoce e test specialistici, e la diagnosi viene effettuata in caso di superamento di alcuni parametri inequivocabili. Rimangono problemi di rigidità forse eccessiva nella procedura di diagnosi – «il processo di lettura si vede già in molti bambini che è difficoltoso, ma in alcuni casi non è possibile fare una diagnosi perché i criteri non sono abbastanza evidenti»
Per le scuole, che oltre a dover gestire gli alunni con diversi Dsa e quindi con diverse esigenze, nello stesso gruppo classe spesso si ritrovano anche alunni con specificità proprie, dagli alunni diversamente abili, che come i Dsa rientrano nei cosiddetti Bisogni Educativi Speciali (BES), agli stranieri che magari devono ancora essere alfabetizzati.”
“In più, è dal 2003 che la riforma Moratti ha imposto alle scuole di redigere programmi personalizzati per ciascuno studente(il cosiddetto “portfolio delle competenze individuali”). E qui viene il bello: nel caso dei Dsa, ad esempio, il docente (o, a seconda dell’età dell’alunno, un’equipe specifica) deve provvedere a redigere un Piano Didattico Personalizzato (PDP) dove sono indicati tutti i supporti e gli accorgimenti necessari a realizzare il successo scolastico degli alunni con Dsa (tra le misure compensative ne sono esempi il computer con la sintesi vocale e le mappe concettuali; tra quelle dispensative minori carichi di compiti a casa e tempi aggiuntivi per le verifiche scritte).”
“Ma la gestione tra DSA, BES e chi più acronimi ha, più ne metta, rimane, come è facile immaginare, estremamente complessa. E malgrado per la redazione di un PDP «non occorra più di un’ora», l’ applicazione concreta resta di difficile attuazione. «La scuola è piena di dirigenti motivati e di buoni docenti che si preoccupano delle difficoltà dei propri alunni perché vedono il proprio lavoro come una missione, al di là che ci sia o meno una norma che lo prevede».
Il problema, però, è che anche i più volenterosi, ad un certo punto, rischiano di non riuscire più a gestire tutto (in questo senso, non stupirà la frequenza dei casi di burnout tra gli insegnanti). «Spesso le cose vanno bene non tanto perché il sistema funziona, ma perché ci sono persone e docenti che si spendono personalmente. Certamente però il rischio oggi è che il docente, anche quando ha tutta la volontà di fare bene, dopo un po’ perda la motivazione».
«Gli insegnanti hanno una funzione sociale enorme, hanno il compito di formare cittadini. Ma la scuola spesso è lasciata sola in questa missione».
Il problema, insomma, non è tanto quanto bassa o alta sia l’incidenza dei Dsa e di tutte le altre tipologie di studenti, e nemmeno lo è la normativa (che è giusto ci sia), ma piuttosto la mancanza di riconoscimenti per i docenti virtuosi. E, soprattutto, di risorse per sostenere il sistema. «Per i BES ad esempio avevano pensato ai docenti di potenziamento, ma come sono stati utilizzati? Spesso sono stati impiegati come tappabuchi per le sostituzioni».
Ancora: «Il problema è organico: per i diversamente abili è previsto il sostegno, ma vengono date solo alcune ore sul totale dell’orario. Alcuni stranieri vengono addirittura inseriti alle superiori pur senza sapere una parola di italiano: non bisognerebbe pensare all’alfabetizzazione prima?». La scuola, in altre parole, è investita di troppi compiti rispetto a quelli a cui possono concretamente stare dietro i soli docenti.”
“Occorrerebbero – dichiara la dottoressa – più fondi per consentire ai docenti di fare bene il proprio mestiere. E quindi di aiutare i propri alunni ad avere tutti le stesse possibilità di riuscire bene a scuola, quali che siano i loro bisogni. Ma il problema è lungi dall’essere risolvibile unicamente in forma economica: infatti, è necessario un vero e proprio cambio culturale. Ed è soprattutto il caso per quanto riguarda i Dsa: «per anni noi abbiamo dovuto ragionare con persone che sostenevano che la dislessia fosse una moda e che non esisteva. Addirittura c’era chi la imputava ad un problema di conflitto con la madre». «Tutte queste cose non sono scomparse dalla testa delle persone».”
“Anche dove la dislessia è stata riconosciuta a livello internazionale per quello che è – ovvero «una neurodiversità, una modalità diversa di apprendimento, che con i canali giusti può portare fino all’università» – però, certi preconcetti restano piuttosto diffusi e ancora duri a morire. Tanto da riflettersi anche nel mondo del lavoro, con tutti i problemi che ne conseguono. Basti pensare alle sfide che i cambiamenti nell’universo delle professioni, tra il ridimensionamento di molti lavori “fisici” e l’avanzare della digitalizzazione, già oggi pongono per le persone con Dsa. «L’uso dei computer oggi è una grande risorsa, ma non sempre le aziende sono in grado di comprendere i bisogni delle persone dislessiche. Nei concorsi per le forze armate si chiede ancora una valutazione medica ad una commissione, come se il Dsa fosse una disabilità, e alcuni ordini professionali non consentono l’accesso con strumenti compensativi. Per non parlare poi degli stessi addetti alla selezione del personale, che spesso equiparano il dislessico al disabile».
Insomma – termina Reale – anche questo ci dà l’idea del grande lavoro soprattutto culturale che ancora rimane da fare. E che probabilmente rimane lo scoglio più grande di tutti – oltre le statistiche, oltre i fondi, oltre le leggi.”
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