L’angolo dello psicologo 1la sindrome della capanna post covid: intervista al Dr. Giuliano Gaglione
Per l’angolo dello psicologo, abbiamo intervistato il Dr. Giuliano Gaglione Psicologo Psicoterapeuta, con esperienza pluriennale in ambito clinico, riabilitativo e formativo. Esperto nel trattamento di disagi psicologici e relazionali. Intervisteremo, in seguito ,altri psicologi. Stiamo infatti lavorando ad una rubrica attraverso cui stabilire un filo diretto con i nostri lettori.
Come cambieranno le persone dopo questa quarantena?
La quarantena dovuta alla pandemia Covid-19 ha rappresentato un periodo in cui la chiusura nelle mura domestiche ha inevitabilmente comportato un processo introversivo durante il quale l’individuo si è confrontato con la propria interiorità.
Questi, se da un lato potrebbe aver rispolverato vecchi scheletri nell’armadio (o essersi ritrovato al cospetto di “nodi non risolti”),dall’altro potrebbe aver riscoperto vecchi talenti, passioni e attitudini che gli hanno permesso di trascorrere il proprio tempo in una maniera originale ma al contempo benefica e funzionale al proprio adattamento psicofisico, nonostante sia stato attorniato da una drammatica situazione che ha imperversato in tutto il pianeta.
Indubbiamente le persone cambieranno il modo di rapportarsi con sé, con gli altri e con l’ambiente circostante, si spera inizieranno a comprendere i valori di quelle sfumature talvolta trascurate che ci rendono sereni, gioiosi, appagati.
Ci saranno traumi da dover risolvere?
Il trauma post-Covid è un è una condizione psichica assolutamente plausibile per una serie di motivi: innanzitutto il cittadino si è trovato vittima di fenomeno drammatico e inaspettato che lo ha colto assolutamente impreparato, come se fosse un vero e proprio fulmine a ciel sereno; pertanto, se immaginiamo a titolo esemplificativo un lavoratore stakanovista che improvvisamente si ritrova in casa (anche effettuando smartworking) a modificare le sue abitudini giornaliere, ciò può avergli comportato un grado di disadattamento non indifferente che potrebbe a sua volta avergli creato disagio.
Pensiamo inoltre a tutti coloro abituati, anche solo per una passeggiata, a varcare la soglia della propria abitazione proprio per esperire il senso di libertà, perché le mura di casa gli stanno strette, oppure chi lavora o conduce una vita a stretto contatto con il pubblico: questi sono tutti fattori che provocano significativo stress in una situazione di lockdown.
Per tutte queste persone le mura domestiche hanno segnato un confine invalicabile tra vincoli e libertà, tra paura per la propria salute e necessità ineluttabile di seguire specifiche regole, il tutto immerso in un contesto nel quale non si è fatto altro che parlare di coronavirus, divenendo un fenomeno totalizzante non solo dal punto di vista fisico e psichico ma anche sociale e relazionale.
Discorso a latere riguarda il “trauma materiale”, ossia quella situazione disagiante che stanno vivendo tutti coloro i quali hanno subito un crollo economico a causa della riduzione del lavoro: verso tutte queste persone esprimo un sentito senso di colleganza, solidarietà, invitando loro a continuare a sperare al fine di perseguire i propri obiettivi.
In questo periodo la parola principale è #andràtuttobene, cosa pensa di questo meccanismo di fratellanza? Sparirà presto questo senso della comunità?
Talvolta accade che, immerse in situazioni critiche, le persone possano far leva l’uno sull’altro per poter le affrontare insieme, unendo ed integrando le risorse personali al fine di creare una forza comune utile a fronteggiare situazioni stressogene: ciò è accaduto per il Covid-19.
A tal proposito voglio considerare la radice di un termine assolutamente attinente a tale circostanza, ossia “solidarietà”: l’incipit di tale vocabolo è “solid-”, che sembra rimandare alla solidità necessaria al rapporto tra cittadini.
In ogni caso, ho assistito in prima persona a commoventi scene in cui venivano donati beni di prima necessità a chi non poteva permetterselo, oppure chi aiutava le persone anziane a fare la spessa o commissioni necessarie; la solidarietà che ha imperversato durante questi mesi è stata ben visibile e forse l’ hashtag #andràtuttobene ci è servito per ricordare che è sempre necessario scorgere un barlume di speranza affinché possa essere ripristinata una sensazione di benessere che talvolta viene trascurato.
Personalmente spero non sparisca questo senso di comunità, di fratellanza, di vera e propria colleganza, annullando dunque un’ “apparente evanescente” visione utilitaristica dell’uomo, e direi, in senso più ampio delle relazioni umane.
Paradossalmente, se questo virus ha colpito spesso in maniera purtroppo letale i corpi di tante persone, lo stesso, a lungo andare, potrebbe essere un punto di partenza per la cura dei legami interindividuali.
Cosa sa dirci della cosiddetta sindrome della capanna, da cui sembrano essere affette molte persone che non sono mai uscite fuori da casa durante il periodo critico dell’epidemia?
“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine” scriveva l’immenso Neruda: allo stato attuale ci troviamo dinanzi un fenomeno inverso, ossia esistono persone che temono di uscire, vuoi per paura di contrarre il virus, vuoi perché ormai si è consolidato quel senso di protezione all’interno delle proprie dimore, che vacilla anche la sola idea di potersene allontanare. Due mesi rappresentano un periodo più che sufficiente per consolidare in un individuo una particolare abitudine ad uno specifico modus vivendi nei confronti del quale, volente o nolente ci si adatta, prima faticosamente, poi in maniera più naturale; dunque, nel momento in cui ci viene concesso di “varcare la soglia” si può subire un effetto rebound per cui non si riesce a valicarla.
In questi casi sento che bisogna concedere un tempo naturale, un tempo non scandito da lancette (i greci lo chiamavano Kairos) per poter scegliere serenamente cosa fare.
<
p class=”s5″>Contestualizziamo questo evento e diamogli una cornice di senso secondo il quale l’uomo si è trovato al centro di un vortice pandemico destabilizzante sotto vari punti di vista, per cui invito le persone con la “Sindrome della Capanna” a “comunicare con la loro sindrome”, analizzandola, scorgendo come mai interessi proprio loro e che significato assuma oggi nella loro vita e, se questa condizione si tramuta in un disagio che interferiscesignificativamente con la propria quotidianità, sarebbe opportuno contattare uno Specialista.
L’articolo L’angolo dello psicologo 1la sindrome della capanna post covid: intervista al Dr. Giuliano Gaglione proviene da BelvedereNews.
(Fonte: BelvedereNews – News archiviata in #TeleradioNews ♥ il tuo sito web © Diritti riservati all’autore)