Facite Ammuina – Il falso storico per raccontare una Storia falsa.
Facite Ammuina – Il falso storico per raccontare una Storia falsa.
Si tratta chiaramente di un falso, nel senso che il facite ammuina non è mai esistito come disposizione dell’Armata di Mare (il vero nome della Marina Militare, quello errato è Real Marina) del Regno delle due Sicilie.
Tratteremo del Facite ammuina sviluppando due argomenti: prima parleremo del significato in napoletano dell’espressione Facite ammuina poi affideremo ad Arturo de Cillis il “disconoscimento” del Facite ammuina
Il significato di Facite ammuina
In napoletano ammuina sta per confusione, rumore. Se si associa l’imperativo del verbo “fare” alla parola ammuina, otteniamo due significati diversi qualora utilizziamo l’imperativo nella forma negativa, per intenderci non facite ammuina, rispetto all’uso dell’espressione nella forma positiva, vale a dire, Facite ammuina.
L’espressione non facite ammuina è normalmente e correttamente utilizzata per ordinare letteralmente di non far rumore: potrebbe essere il caso di una mamma che volendo ottenere il silenzio dai suoi figli si rivolge intimando: Non facite ammuina.
L’espressione al positivo facite ammuina o faccim ammuina ha probabilmente anche un ulteriore significato: si sottintende ovviamente di fare rumore, ma con un obiettivo strumentale: facite ammuina così otterrete un beneficio, facimm ammuina così ci tocca qualcosa.
E’ in questo senso che va letto il famosissimo facite ammuina presentato come un proclama, una disposizione del Regolamento della Flotta militare borbonica: marinai, facite ammuina, così facciamo credere che siamo attivi ed operosi!
Il disconoscimento di paternità di Facite ammuina
Affidiamo alle accorate parole di Arturo De Cillis la dimostrazione del “disconoscimento di paternità” del facite ammuina; l’intero articolo è stato pubblicato sulla rivista L’Alfiere.
Ecco quindi alcuni stralci dell’articolo del De Cillis sul Facite ammuina.
ci si limiterà in questa sede a soffermarci sul tristemente noto proclama “Facite ammuina”.
Si tratta – come è noto ai più – del testo di una pittoresca esortazione di stampo goliardico-marinaresco che, riprodotto in tutte le forme grafiche e cartolari possibili (e di recente approdato in forma solenne anche su alcuni siti Internet!), continua ad essere diffuso ed evocato ad ogni pie’ sospinto.
Nemmeno il Parlamento italiano è rimasto immune dal fascino del richiamo, se è vero che deputati e senatori, anche meridionali, vi ricorrono sovente per evocare situazioni di caotica anarchia.
A beneficio dei meno edotti gioverà riportare di seguito il testo del ‘”proclama”, per poi dedicare qualche riflessione alla sua presunta “paternità”.
Il testo del proclama Facite Ammuina
“Regno delle Due Sicilie
Collezione dei Regolamenti della Real Marina – anno 1841,
Capitolo XIX, Art. 27, par. 15”
FACITE AMMUINA! All’ordine “facite ammuina” tutti chilli che stanno a prora vann ‘a poppa e chilli che stann ‘a poppa vann’a prora, chilli che stann’a ddritta vann’a sinistra e chilli che stann’a sinistra vann’a dritta; tutti chilli che stanno abbascio vann’n’coppa passann’tutti p’o stesso pertuso: chilli che ce stanno n’coppa vann’abbascio, chi nun tene nient’affa, s’aremena a ‘cca e a llà.
Ordine “Facite ammuina!”, da usare in occasione di
visite a bordo delle alte autorità del Regno.
Il Maresciallo in capo dei legni e dei bastimenti della Real Marina: Mario Giuseppe Bigiarelli.
Fin qui l’elucubrazione letterale di un’iniziativa che, ove fosse stata inserita esclusivamente nel contesto di un pur deleterio e scontato “folclore” partenopeo, avrebbe potuto, al limite, risultare anche simpatica e divertente. A non renderla tale è la riconduzione del proclama, sottolineata con solennità maggiore di quella conferita al proclama stesso, alla “Collezione dei regolamenti della Real Marina del Regno delle Due Sicilie”.
L’intento sotteso a tale mistificazione appare evidente: siamo di fronte ad uno degli esempi eccelsi di quella perversa spirale denigratoria che ha finito per far breccia nella coscienza comune proprio perché i suoi artefici sono riusciti a coniugare l’esaltazione di “ideali”, solennizzati oltre misura, con il ricorso a spunti apparentemente innocui, ma non per questo meno efficaci. Il contesto, insomma, è quello di una non meglio definibile attività di mistificazione pseudo goliardica che, paradossalmente, ha finito per rappresentare il vero architrave di una costruzione ideal-propagandistica oggettivamente fragile e traballante.
In tale ambito, il “Facite ammuina!” si caratterizza dunque, insieme alle altre piccole idiozie alle quali si è fatto cenno pocanzi, come una provocazione tutto sommato modesta ma dall’effetto deflagrante.
Non può negarsi, infatti, che chi ha ordito la trama della demagogia ricorrendo alla più becera banalità abbia colto nel segno, se è vero che ancora oggi il “Facite ammuina!”, indelebilmente marchiato con il sigillo “borbonico”, continua ad essere evocato anche in sedi che, a seconda dei punti di vista, potrebbero apparire più o meno autorevoli.
Se questo è un dato amaramente oggettivo, ve ne è però un altro, che non può non essere segnalato a fondamento di un’ “azione di disconoscimento di paternità”.
Sotto questo profilo, va subito evidenziato un dato che balza agli occhi perché esplicita la palese infondatezza della presunta paternità borbonica del proclama. Fin dall’epoca di Carlo III leggi e regolamenti del Regno erano pubblicati in lingua italiana. Dovremmo forse presumere che per il sullodato proclama si sia fatta un’eccezione, magari in omaggio all’eccelsa “valenza strategico-militare” delle disposizioni in esso contenute…? Risulterebbe invero difficile, anche per il più tenace denigratore, accedere ad ipotesi del genere, soprattutto alla luce di dati che appaiono difficilmente contestabili: il rigore, anche formale, dei giuristi del Regno; l’assoluta inutilità, ai fini strategico-militari ma anche in funzione di mere finalità di cerimoniale, delle disposizioni contenute nel “Facite ammuina!”; l’elevato livello di preparazione e la rigorosa selezione degli ufficiali;Il discorso, a questo punto, potrebbe anche considerarsi concluso, a fronte di un’argomentazione francamente efficace ed inoppugnabile.
S’impone tuttavia un’integrazione degli argomenti a sostegno dell’azione di disconoscimento, utilizzando un diverso profilo speculativo. A tale proposito sarà sufficiente ricordare, così come Lorenzo Terzi ha fatto in modo esemplare che
“Giuseppe Fioravanti, professore di storia della scuola e delle istituzioni educative presso l’Istituto
universitario Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel saggio “La scuola normale”, scrive: “… l’Armata di Mare, come veniva chiamata la Marina militare del Regno, raggiunse un alto livello di preparazione e di efficienza, al punto che Cavour dette ordine di adottarne per la marina da guerra del Regno d’Italia tutte le ordinanze, i regolamenti, i segnali e perfino le uniformi”.
Fin qui il Fioravanti. Ed è scontato ma non certo banale
Ve lo immaginate Camillo Benso che ordina di adottare per la marina italo-piemontese regolamenti scritti in buffonesco dialetto partenopeo?.
La citazione del Fioravanti, di fronte alla quale dovrebbero impallidire tutti coloro che si ostinano pervicacemente a sostenere la derivazione borbonica del “Facite ammuina!”, introduce un ulteriore elemento di valutazione ai fini del processo di disconoscimento di paternità, laddove ricorda che la Marina militare del Regno era definita Armata di Mare e non Real Marina, come riportato in calce agli stampati di ogni risma sui quali è stato riprodotto il “proclama”.
L’ultima notazione riguarda il presunto firmatario del proclama, identificato nel “maresciallo in capo dei legni e dei bastimenti della Real Marina, Mario Giuseppe Bigiarelli”, della cui identità non vi è traccia in alcuna delle dettagliatissime pubblicazioni in cui sono riportati i nomi di ufficiali, sottufficiali e finanche militari di truppa delle armi dell’esercito napoletano.
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