Fuga di cervelli verso il nord e l’estero: il sud privato del capitale umano
Il divario economico tra il Nord e il Sud del Paese si misura da decenni attraverso numerosi fattori economici come reddito medio pro capite, tasso di disoccupazione ed investimenti pubblici in infrastrutture. Nessuno di questi dati parla a favore del Meridione. Ciò che è anche noto è la costante, e praticamente mai interrotta,emigrazione della forza lavoro dal Meridione d’Italia verso il centro Nord, così come verso l’estero. Tale dato, sebbene non immediatamente fruibile nel quotidiano, come potrebbe esserlo un qualunque indicatore economico, risulta essere tangibile se si guardano i piccoli centri e il conseguente spopolamento. Tali fattori combinati insieme inevitabilmente contribuiscono a creare scenari tragici per un territorio così ricco di storia, cultura e ricchezze naturali.
Le soluzioni proposte dai diversi governi che in questi anni si sono succeduti non sembrano sortire alcun effetto su questo impoverimento continuo del Meridione. Potenziare le infrastrutture esistenti, crearne delle nuove e necessarie, riqualificare interi territori possono aumentare il potenziale di mercato del Mezzogiorno, aprire le porte anche ad investitori stranieri e rilanciare l’industria locale. Ma in che misura possono tali misure colmare tale atavico gap se poi manca il cosiddetto capitale umano?
Secondo un recente studio della Zecca di Stato nel Mezzogiorno la piaga della disoccupazione coinvolge 1,4 milioni di persone, il 18,4 per cento delle forze di lavoro. Il divario rispetto al Centro Nord è ampio – 11 punti percentuali – e, rispetto al 2010, è aumentato. Ma il sottoutilizzo del lavoro affligge una platea ben più numerosa: al Sud vi sono 2 milioni di persone disponibili a entrare nel mercato a condizioni più favorevoli e 880.000 che vorrebbero poter lavorare più ore.
Questa situazione assume risvolti drammatici per i giovani. Tra quelli con meno di 35 anni il tasso di disoccupazione è del 33,8 per cento, 19 punti percentuali in più che al Centro Nord. Circa 1,7 milioni di giovani meridionali non lavorano né accumulano conoscenze (partecipando a un percorso scolastico o formativo): si tratta del 36,6 per cento del totale, un valore tra i più elevati d’Europa e persistente nel tempo, con effetti che condizionano negativamente l’intera vita lavorativa delle persone.
Qual è la risposta del popolo meridionale di fronte a tali dati? L’emigrazione verso il Centro Nord e l’Estero.
Secondo uno studio dello SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo Industriale del Mezzogiorno) la vera emergenza del Sud Italia non è tanto la mancanza di investimenti ma la ripresa dei flussi migratori. Tra il 2002 e il 2017 oltre due milioni di persone sono emigrate dal Mezzogiorno, di cui 132.187 nel solo 2017, di queste ultime 21.970 sono laureate.
Secondo i numeri della Fondazione Migrantes nel suo ultimo rapporto sono poco meno di 5,3 milioni gli italiani iscritti all’AIRE (Anagrafe Italiani Residenti all’ Estero), di cui la metà sono cittadini del Meridione. La comunità più ampia di Italiani all’estero è quella che vive in Argentina (molti dei quali nati in loco) seguita da Germania, Svizzera, Brasile e Francia e così via fino agli angoli più remoti del pianeta.
Guardando invece nel complesso il sistema Italia, l’ISTAT ha ultimamente reso pubblico uno studio stimando un saldo tra partenze e rientri di connazionali. Nell’ultimo decennio la perdita si attesta sulle 500.000 unità (considerando quindi anche i rientri). Unità che se fossero rimaste in Italia si stima avrebbero potuto produrre 16 miliardi di euro, ossia oltre un punto percentuale di PIL.
In compenso è pur vero che l’Italia è oggetto anche di un fenomeno di immigrazione che, secondo il direttore dell’Osservatorio sulla sicurezza internazionale cella Luiss Alessandro Orsini, contribuisce mediante regolare tassazione del lavoro, al 9% del PIL italiano. La domanda è “tolgono gli stranieri il lavoro agli Italiani?”. La risposta è da ricercare nei dati. Solo poco meno dell 8% svolge mansioni qualificate, la restante parte svolge mansioni non qualificate e comunque nei settori primario e secondario. Il contributo economico della forza lavoro straniera è inoltre dato da oltre 700.000 imprenditori nati all’estero per un totale di 2,3 milioni di contribuenti, i quali emettono un gettito IRPEF di 3,5 miliardi e 13,9 miliardi di contributi previdenziali.
Risulta evidente quindi che sia tanto una perdita economica la fuga degli italiani all’estero quanto lo sarebbero politiche repressive di fenomeni migratori verso l’Italia.
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